Cop 23: il Paris Agreement prende forma

Durante la Cop 23 di Bonn si è discusso soprattutto di finanza climatica, danni e perdite per via del climate change e di diritti umani. Passi avanti, ma gli argomenti rimangono sul tavolo: vanno definiti prima della prossima Cop 24. 
Novembre-Dicembre 2017

Era chiaro da tempo che sarebbe stata una Cop di transizione. Incentrata sulla definizione dell’Accordo di Parigi fatto da articoli, parametri e regole, più che sull’azione climatica in senso stretto, di cui si avverte disperato bisogno.

Alla Cop 23 di Bonn da poco conclusa – tenuta tra il 6 e il 17 novembre – si è discusso soprattutto di finanza climaticadanni subiti per via del climate change e diritti umani. Questioni non nuove alle fasi negoziali dell’Unfccc (la Convenzione Onu che si occupa di cambiamenti climatici) e che grazie alla spinta della presidenza Fiji, tra i Paesi più vulnerabili al clima che cambia, sono state motivo di dibattito.

Un risultato di sicuro positivo a cui si è giunti, riguarda il periodo pre 2020. Una road map per rivedere gli impegni degli Stati prima del 2020 e non dopo, come inizialmente si pensava a Parigi. Dove una prima verifica su quanto stanno facendo i Governi in materia di politiche climatiche, sarà fatta a Katowice (Polonia) il prossimo anno.

Quando parliamo di finanza climatica, invece, parliamo di un punto cruciale sul quale i Paesi industrializzati e quelli poveri cercano di trovare un’intesa da diversi anni. Nelle scorse Cop, si è deciso che i Paesi ricchi devono raggiungere la cifra dei 100 miliardi di dollari l’anno, entro il 2020, da destinare in un fondo per azioni di mitigazione e adattamento ai Paesi poveri. Il problema è che il fondo, al momento, non brilla certo per trasparenza: non si sa quale sia la quota raggiunta e, in più, non si conosce la ripartizione tra le due attività. L’Accordo di Parigi prevede un “giusto bilanciamento”, ma cosa si intende per giusto? Perché, se da una parte i Paesi poveri necessitano di maggiore adattamento, dato che già subiscono i duri colpi del cambiamento climatico, dall’altra i Paesi ricchi preferiscono trasferire tecnologie per la mitigazione, più convenienti sul piano economico. Secondo uno studio indipendente fatto da Oxfam, attualmente all’adattamento viene destinato solo il 20% delle risorse: i Paesi vulnerabili chiedono di più e maggiore certezza sulla struttura del fondo.

Con l’accelerazione del cambiamento climatico e l’intensificazione degli eventi estremi, la faccenda dei danni e delle perdite subite - indicate nel testo come “loss and damage” - e di una loro quantificazione in termini monetari si fa sempre più seria e, a Bonn, si è finalmente iniziato a parlare dell’istituzione di un fondo ad hoc (diverso e distaccato dalla finanza climatica). Tuttavia, anche qui, diversi i nodi da sciogliere. Ad esempio: a quanto ammontano i danni imputabili al climate change ogni anno? Anche su questo i Paesi sono chiamati a discutere nei prossimi mesi.

Per quanto riguarda i diritti umani, le novità rispondono al nome di Indigenous People Platform e Gender Action Plan. Il primo è un accordo negoziale basato sul principio dell’inclusione per gli indigeni nei negoziati e sulla condivisione delle informazioni, fondamentali quando si parla di politiche di lotta al climate change. Il secondo, il Gap, è un programma per promuovere una maggiore partecipazione delle donne e dei gruppi di genere all'interno delle politiche climatiche.

Novità emergono pure per il settore agricolo, da tempo argomento ostico durante i negoziati. Il risultato raggiunto dovrebbe ora portare a politiche governative più oculate in aiuto degli agricoltori. L’agricoltura, la silvicoltura e i cambiamenti di uso del suolo producono insieme il 21% delle emissioni globali, rendendo il settore il secondo più grande emettitore dopo quello energetico. Con i progressi fatti si può finalmente iniziare, attraverso la costituzione di un ente dedicato, a parlare di soluzioni in grado di rendere l’agricoltura meno inquinante e meglio adattabile ai cambiamenti climatici.

Inoltre, l’impulso della presidenza Fiji, ha saputo mettere sotto la lente d’ingrandimento il ruolo dell’oceano. Incrementare la resilienza e prevenire i danni per le popolazioni che vivono nel Pacifico diverrà parte integrante dei negoziati entro l’anno 2020.

Tra le iniziative condotte a margine dei negoziati, va senz’altro nominata la Powering Past Coal Alliance. Un’alleanza che tiene insieme governi, regioni, stati, mondo del business e organizzazioni, allo scopo di “mettere in atto azioni che accelerino uno sviluppo pulito e la protezione del clima attraverso una rapida fuoriuscita dal tradizionale carbone”. Una dismissione che, secondo la dichiarazione, deve essere sostenibile, economicamente inclusiva e socialmente responsabile, nel senso di dare un “appropriato supporto ai lavoratori e alle comunità”. L’Italia è tra i primi firmatari e l’obiettivo è ambizioso: raggiungere 70 Paesi entro il prossimo anno.

Nota dolente, però, è che fino ad ora non hanno aderito due tra i Paesi maggiormente dipendenti da questo combustibile fossile per la produzione elettrica: Germania e Polonia.

Il ruolo dell’Italia

L’Italia si è presentata a Bonn forte dell’ultima Sen (Strategia energetica nazionale), dove spicca proprio l’uscita dal carbone entro il 2025.

Nonostante l’esborso economico “simbolico” (si parte con 2,5 milioni di euro), va registrato il lancio da parte del nostro Paese di un programma di borse di studio per la formazione di competenze in ambito climatico indirizzato agli Stati meno sviluppati. Fondo “Capacity” intitolato proprio all’Italia, che ha ricevuto i complimenti di Patricia Espinosa, segretario esecutivo dell’Unfccc: “Desidero estendere il mio profondo apprezzamento al governo italiano per aver fornito supporto per il lancio di questo importante programma di borse di studio. Rappresenta un’importante passo avanti nel nostro sforzo per garantire il più ampio sostegno possibile ai Paesi meno ricchi per combattere il cambiamento climatico e aiutarli a costruire capacità istituzionali per realizzare vera resilienza agli impatti climatici”.

Infine, ci siamo candidati per ospitare la Cop 26, quella del 2020 (da voci di corridoio si apprende che l’Italia potrebbe spuntarla). Sicura, invece, la notizia sull’Ipcc: saremo noi, a fine gennaio 2018 e a Bologna, ad ospitare i festeggiamenti dei 30 anni di vita di questo fondamentale istituto della Convenzione Onu sui cambiamenti climatici.

Insomma, ciò che salta fuori dall’ultima tornata negoziale è un testo da perfezionare prima della Cop 24 di Katowice del prossimo anno. Cop segnata da tempo in rosso per diverse ragioni: s’inizia a parlare di impegni di revisione delle emissioni gas serra degli Stati (nel gergo NDCs, con quelli attuali, e se rispettati, si sfonda il muro dei tre gradi fallendo l’obiettivo stabilito a Parigi); la Cop è ospitata e guidata dalla Polonia, nazione restia ad abbandonare il carbone, il modo più “sporco” per produrre energia; si svolgerà pochi giorni dopo l’uscita dello speciale report Ipcc dove per la prima volta vengono valutati gli impatti dei cambiamenti climatici al target di 1,5 gradi. Studio che potrebbe influenzare, e non poco, il comportamento delle Parti.

di Ivan Manzo, redattore di Giornalisti nell'Erba

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