La corruzione in Italia tra misurazione, esperienza e percezione

Misurare la corruzione è fondamentale per prevenirla e reprimerla. Prima ancora, però, bisogna mettersi d’accordo su cosa sia "corruzione": solo così la si potrà misurare e quindi contrastare. 
Novembre-Dicembre 2017

Del tema della corruzione si parla di frequente e su di esso si torna spesso rischiando di cadere nella trappola del banale e del superfluo. Ciò, tuttavia, non deve né scoraggiare l’autore dal tentativo di approfondire un tema così delicato nel nostro Paese, né distogliere l’attenzione del lettore alla vista del titolo.

Per affrontare questo tema sono recentemente intervenuti in soccorso alcuni spunti di non lieve interesse. Il 12 ottobre il report rilasciato dall’Istat “La corruzione in Italia: il punto di vista delle famiglie” e, il 27 ottobre, l’High level workshop on corruption measurement organizzato dalla presidenza italiana del G7, un incontro di studio sullo sviluppo di indicatori per la misurazione della corruzione avvenuto alla Farnesina tra i rappresentanti dei Paesi del G7 e le principali istituzioni europee ed internazionali, cui l’autore del presente contributo ha avuto occasione di partecipare.

Con il primo documento, l’Istat ha stimato che il 7,9% delle famiglie italiane, cioè circa 1 milione e 742 mila famiglie, sia stato diretto protagonista di fenomeni corruttivi. Il settore più coinvolto è quello lavorativo, dove è stata richiesta una indebita prestazione al 3,2% delle famiglie; seguono il settore della giustizia, dove il 2,9% sostiene di essere stato destinatario di richieste di denaro o altre utilità, e quello dei benefici assistenziali, con un coinvolgimento del 2,4% delle famiglie. Nel 60% dei casi la controprestazione corrispondeva a denaro. Tra le famiglie che hanno accettato di rispondere alla domanda specifica, il 35,2% dichiara di aver accettato di versare il pagamento indebito e, nell’85,2% dei casi, di essere soddisfatta di quanto ottenuto. Infine, circa la metà delle famiglie (51,4%, che diventa 73,8% nel caso di una prestazione sanitaria) sostiene che ricorrerebbe di nuovo all’uso del denaro, dei favori o dei regali, mentre solo il 30,9% afferma con certezza che non lo rifarebbe.

Non essendo intenzione dell’autore passare in rassegna in questa sede la totalità dei più che interessanti rilievi del Report, non resta che concluderne qui l’analisi; ma prima di farlo, non si può non rilevare una singolarità emersa nella lettura del documento, che si ritrova spesso anche nel dibattito internazionale. Si parla, cioè, di vittime di corruzione: sul punto occorre una precisazione, da non confondere con un mero cavillo legale né con una fantasia giustizialista. La legge 190/2012, meglio nota come Legge Severino, riordinando la materia della corruzione, ha introdotto una tripartizione tra corruzione, induzione indebita a dare o promettere utilità e concussione. Questa nuova sistematizzazione dei reati comporta che nella corruzione le due figure di corrotto e corruttore sono poste sullo stesso piano, mentre la concussione è configurata come atto di prevaricazione da parte del pubblico ufficiale per ottenere un vantaggio indebito [1] su un altro soggetto, che quindi assume la qualità di vittima, persona offesa dal reato. Da qui, le personali perplessità riguardo all’utilizzo della locuzione “vittime di corruzione. Non si vuole qui essere insensibili al fatto che chi chiede il denaro è solitamente in una posizione di vantaggio e di potere rispetto al destinatario della richiesta; né d’altra parte si vuole negare che sul piano internazionale il fenomeno corruttivo non è considerato e organizzato allo stesso modo della nostra legge penale, o che il termine corruzione richiami alla mente ogni tipo di utilizzo della pubblica posizione per un interesse privato. Ma l’indagine svolta dall’Istat parla espressamente di corruzione ed è rivolta al contesto italiano, dove il dettato legale è chiaro e inequivoco e le diverse situazioni, quindi, non possono essere confuse. Ma d’altra parte, se la metà degli intervistati dichiara di esser disposta a versare nuovamente una utilità non dovuta, difficilmente possiamo immaginare abbia subìto una violenza o una minaccia. È giusto quindi tener distinte le due ipotesi, cioè e in definitiva, da un lato quella di chi per ottenere qualcosa è disposto a pagare, compiendo un atto che sa essere illecito, e dall’altro quella di chi si trova realmente costretto a dare utilità per paura di ritorsioni o per aver subito una violenza.

La questione terminologica appena sollevata permette di introdurre il secondo spunto di riflessione cui si accennava. Al workshop del 27 ottobre, l’interrogativo preliminare di fondo è stato “cosa si vuole misurare?. La corruzione, certo. Ma cosa si intende con questo termine? Solamente dopo aver dato un significato alla parola sarà possibile ricercare ed eventualmente individuare un metodo univoco e certo di misurazione.

Trovare una risposta può solo in apparenza essere semplice, presupponendo una scelta metodologica fondamentale. Occorre, cioè, trovare una definizione comune per il termine corruzione, o meglio individuare un fenomeno, un “tipo comune da misurare. Le possibili risposte sono varie e possono essere ricondotte a tre ipotesi. Innanzitutto, quella adottata da Transparency International nell’ambito del suo Corruption perception index (Cpi), secondo cui la corruzione consiste in un “atto di abuso di un potere delegato per un vantaggio privato. Questa definizione non corrisponde sempre a fattispecie di reato punite negli ordinamenti e non si è quindi privi di difficoltà nella rilevazione – e dunque nella misurazione – del fenomeno. Una seconda definizione è quella proposta da chi, come la Banca Mondiale, vorrebbe utilizzare un approccio onnicomprensivo, andando a ricomprendere qualsiasi fenomeno di devianza dalla comune utilità, secondo la nozione di quiet corruption, cioè mala-administration, comportamenti che pur non essendo penalmente rilevanti rivelano l’incapacità di un pubblico ufficiale di perseguire l’obiettivo che gli è stato delegato. Fenomeni di conflitto di interesse o di monopolio, per esempio, che rendono possibile all’azienda monopolistica lucrare attraverso la fissazione di un prezzo superiore a quello efficiente, l’assenteismo di un funzionario pubblico e così via. E infine la posizione più formalistica, sostenuta, per esempio, da Raffaele Cantone: corruzione è solamente il “tipo legale previsto dal legislatore come reato. Da qui il problema di fattispecie non coincidenti in tutti i Paesi, se non in una struttura di massima.

Una volta scelto il modello corruttivo “tipico, è possibile ricercare i metodi della sua misurazione. E qui si aprono due punti: il perché e il come della misurazione.

Gli indici più diffusi guardano alla percezione della corruzione da parte dei cittadini: una misurazione di tipo soggettivo che ha il limite, più volte rimarcato, di non dare una conoscenza certa e affidabile del fenomeno. E questo perché il risultato della rilevazione è inevitabilmente influenzato da fattori ambientali, fattori culturali, indici di tolleranza soggettiva e tanto altro, diversi non solo tra diversi Paesi ma anche all’interno dello stesso Stato. Insomma, un indicatore poco omogeneo e poco affidabile per una rilevazione oggettiva del fenomeno. Proprio perché mediata, la percezione cela il rischio di sottostimare, o al contrario di sovrastimare il fenomeno. Con ciò si vuole dire che la percezione non corrisponde quasi mai, per esempio, alla realtà statistica giudiziaria. Si guardi al caso italiano: la percezione del fenomeno è pressoché stabile [2], ma al contrario le statistiche giudiziarie segnano una diminuzione delle condanne per corruzione [3]. Perché questo scollamento? Sulla percezione del fenomeno influisce in misura rilevante, oltre ai fattori sopra elencati, l’informazione, che tali fattori influenza e altera; ma a sua volta la costante presenza di pagine di cronaca giudiziaria è senza dubbio alimentata da ulteriori elementi: in Italia possono essere considerati la vigenza dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’indipendenza della magistratura italiana, la particolare efficienza degli apparati investigativi italiani, riconosciuta in tutto il mondo e ribadita nel citato incontro del G7. Ma anche dalle recenti iniziative che negli ultimi anni si stanno susseguendo in materia di corruzione: si dice infatti che “più combatti la corruzione più la rendi percepibile” [4]. Questi fattori fanno sì che dinanzi ad una innegabile situazione patologica in cui versa il nostro Paese, l’impatto sui media e quindi sulla percezione dell’opinione pubblica sia enorme, anche più di quanto si registri sul piano fattuale.

A questo punto si deve dar conto della seconda tipologia di indicatori, quelli di natura oggettiva, fondati per lo più su statistiche giudiziarie, su interviste a campioni di popolazione e sui cosiddetti “campanelli d’allarme” (es. scarsa partecipazione ad una gara pubblica). Anche con i dati oggettivi si pone un rischio, o meglio la certezza di catturare e fotografare esclusivamente la corruzione emersa, già accertata, lasciandosi così sfuggire fenomeni meglio nascosti. E questo problema si manifesta soprattutto con i dati giudiziari, gli unici realmente in grado di consegnare una statistica certa. Ma non ancora sufficiente: il rischio, anche qui, potrebbe essere quello di sottostimare il fenomeno a causa di possibili applicazioni di cause di non punibilità a fatti che pur costituirebbero reato (si pensi anche semplicemente alla prescrizione).

E allora come fare? Ferma restando l’importanza di indagini soggettive come il Cpi [5], la via sembra quella di un set di indicatori sintetici orientato all’oggettività, che possa tener conto di fattori ambientali e culturali, della legislazione nazionale e conseguentemente delle diverse qualificazioni giuridiche del fenomeno corruttivo; a meno che non si voglia ricercare la misurazione di un “tipo” che superi la definizione legislativa della corruzione per adottare un oggetto di misurazione globale e comune a tutti.

L’importanza definitoria, poi, si riverserebbe anche sul piano della prevenzione, quale obiettivo ultimo della misurazione. Si è detto poco, infatti, del perché misurare la corruzione, ma è evidente che per poter mettere in campo una politica di prevenzione ambiziosa, e non solo di repressione, si deve partire dal dato statistico della diffusione del fenomeno ma, soprattutto dall’individuazione del cosa prevenire, rimanendo altrimenti solo un buon proposito ogni iniziativa di prevenzione. Per quanto riguarda l’Italia, nel 2014 l’Anac ha proposto un progetto, orientato invero più alla rilevazione del rischio di corruzione che non alla corruzione effettiva. Questo tipo di indagine sarebbe già un passo avanti, considerando che tra le proposte di indicatori in grado di misurare la corruzione effettiva si individuano anche indicatori di rischio, quali, per esempio, il tasso di procedure atipiche negli appalti pubblici.

Insomma, la sfida che si svolge sul piano internazionale per l’adozione di misure di prevenzione comune, indispensabili dinanzi alla nuova globalità e internazionalità della corruzione stessa, non è delle più semplici, anzi. Ma d’altra parte è vero quel che diceva Thomas Kuhn, filosofo e storico statunitense: solamente ciò che è misurabile è migliorabile.

 


[1] Diverso è il caso dell’induzione indebita, in cui le posizioni di colui che induce a dare o promettere utilità e colui che da questi viene indotto sono separate, pur costituendo entrambe reato. Anche qui, dunque, non può parlarsi, con riferimento all’indotto, di vittima, dal momento che questi viene punito con la medesima pena dell’induttore.

[2] Stando all’edizione 2016 del Corruption perception index, l’Italia è passata dalla 61esima alla 60esima posizione con un punteggio di 47/100, intendendosi con 100 “Paese per nulla corrotto” e con 0 “molto corrotto”. Per una più approfondita analisi del Report e del Rapporto Greco http://www.asvis.it/altre-notizie/198-1391/la-corruzione-in-italia-tra-il-rapporto-greco-e-il-corruption-perception-index

[3] Le condanne per corruzione per l’esercizio della funzione (318 c.p.) sono passate dal 64% del 2013 al 24% del 2016; quelle per corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio (319 c.p.) dal 34% al 26%; quelle per corruzione in atti giudiziari (319-ter c.p.) dal 60% del 2013 al 42% del 2016. Fonte: ministero della Giustizia – Direzione generale di statistica e analisi organizzativa, reperibile qui: https://webstat.giustizia.it/Analisi%20e%20ricerche/Statistiche%20sulla%20corruzione.pdf

[4] La frase è di Giovanni Tartaglia Polcini

[5] Report come questo, infatti, rilevano sotto diversi punti di vista, tra i quali viene solitamente ricordata la capacità della percezione di influire sulla attrattività del Paese di investimenti dall’estero; ma ancora, sono indice della fiducia dei cittadini delle istituzioni.

 

di Carlo Maria Martino, Segretariato ASviS

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